Insulti e minacce su Facebook cosi come via Twitter e in generale sul Web, spesso vengono scritti senza troppi pensieri, ma potrebbero riservare davvero brutte sorprese. A minacciare o insultare online, si rischia davvero grosso. Molto di più di una offesa fatta di persona.
Motivo? L’offesa resta scritta e diventa di pubblico dominio.
Una sentenza della Cassazione ha condannato infatti un uomo a 3 anni di carcere per offese aggravate dal mezzo pubblicitario, nei confronti della ex moglie.
La vicenda è piuttosto comune: l’uomo avrebbe insultato e diffamato la donna tramite Facebook, scrivendo offese e post diffamatori che avevano leso la sua immagine e dignità.
Il caso è approdato poi in tribunale e infine presso la Corte della Cassazione, complice anche il fatto che quanto pubblicato online, resta conservato praticamente a vita e di fatto di pubblico dominio.
La diffamazione online è un fenomeno in forte crescita, complici i Social Network e il fatto che, davanti ad uno schermo, molte persone si sentano protette dall’anonimato e quindi si permettano di comportarsi spesso in maniera assurda e totalmente incivile.
Di recente, la cronaca ha documentato molti casi di offese e minacce via web, risolte poi con l’intervento della Polizia Postale, anche se in determinati casi, si trattava di una risposta spropositata, con situazioni spesso di natura politica.
Altro fenomeno, molto problematico, la diffusione incontrollata di bufale, spesso usate per diffondere odio e discriminazione, come le tante bufale su immigrati e zingari, spesso vittime di falsa informazione.
Cosa possiamo fare ?
Prima di tutto, renderci conto che il mondo virtuale è una vera e propria estensione della vita reale.
Quello che facciamo online è forse anche più problematico, perchè ne resta traccia ed è facilmente documentabile.
Quando leggete una notizia, guardate soprattutto la fonte. Spesso, i siti che diffondono le bufale, sono blog realizzati su siti gratuiti (come Altervista.org, WordPress, Blogspot), in modo da sfruttare l’anonimato per creare false notizie a forte impatto emotivo, con migliaia di condivisioni e ovviamente lauti ricavi pubblicitari.
La vostra bacheca rappresenta voi stessi: non scrivete o pubblicate contenuti dei quali non siete sicuri al 100 per cento. Rischiate di trarre in inganno amici e parenti.
Quando le notizie appaiono incredibili, spesso nascondono falsità camuffate: un giro sul web a caccia della fonte e la bufala si manifesta come tale.
IL CASO FACEBOOK
La diffamazione su Facebook può essere considerata aggravata dalla pubblicità e, di conseguenza, la pena può essere il carcere.
E’ quanto è stato stabilito il 28 aprile dai giudici della Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione, chiamati a decidere su una querela che nel 2010, dopo che una donna separata dal marito lo ha accusato di aver messo su Facebook post e commenti diffamatori nei suoi confronti.
Inizialmente trovatosi di fronte al Giudice di Pace, quest’ultimo aveva dichiarato la propria incompetenza ritenendo la diffamazione su Facebook aggravata dal mezzo della pubblicità. Il processo è quindi passato nelle mani del giudice del Tribunale. Il fatto che la diffamazione a mezzo Facebook sia considerata aggravata o meno è rilevante.
Secondo il penalista Gianluca Arrighi, difensore dell’uomo accusato dalla moglie di averla offesa sul social network, mentre il Giudice di Pace applica soltanto delle multe, il Tribunale può anche infliggere il carcere e, nel caso di diffamazione aggravata, la reclusione da sei mesi a tre anni.
La diffamazione è punita con il carcere quando viene commessa con un mezzo di pubblicità. Tutto ruota intorno al significato di ‘mezzo di pubblicità’.
Facebook non può essere paragonato ad un blog o a un quotidiano online, quindi accessibile pubblicamente, ha spiegato il penalista Arrighi, perchè "Facebook prevede che l’utente debba iscriversi al social network, creare un proprio account e che i post successivamente pubblicati vengano condivisi soltanto con gli ‘amici’." Manca quindi il requisito tipico dei cosiddetti mezzi di pubblicità, ossia "che le frasi offensive possano essere visionate da una pluralità indeterminata di soggetti”, ha proseguito Arrighi.
Accolta l’eccezione sul conflitto di competenza sollevata da Arrighi dal Tribunale di Roma, il processo è stato trasmesso alla Corte di Cassazione per la risoluzione del caso in via definitiva.
La sentenza dei giudici della Prima sezione penale della Cassazione era attesa per il 28 aprile, che ora sappiamo perchè diffusa pubblicamente: la diffamazione su Facebook può essere considerata aggravata dalla pubblicità e, di conseguenza, la pena può essere il carcere.